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La famiglia di fatto
Le unioni di fatto, nelle quali alla presenza di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale si associa l’assenza di una completa e specifica regolamentazione giuridica, cui solo l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale ovvero una legislazione frammentaria talora sopperiscono, costituiscono il terreno fecondo sul quale possono germogliare e svilupparsi quei doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione ed al cui spontaneo adempimento consegue l’effetto della “soluti retentio”, così come previsto dall’art. 2034 c.c., cioè la possibilità di non ottenere la ripetizione di quanto spontaneamente dato.
Deve richiamarsi, in primo luogo, l’interpretazione resa dalla Corte di Strasburgo (cfr., ex multis, sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft contro Austria) in merito all’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, in base alla quale deve ritenersi che la nozione di famiglia cui fa riferimento tale disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio, e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo di coniugio.
A tale indirizzo corrisponde un orientamento inteso a valorizzare il riconoscimento, ai sensi dell’art. 2 Cost., delle formazioni sociali e delle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (così già Corte cost. n. 237 del 1986), nelle quali va ricondotta ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (Corte cost., n. 138 del 2010; cfr. anche Corte cost. n. 404 del 1988, con cui il convivente more uxorio fu inserito tra i successibili nella locazione, in caso di morte del conduttore).
In tale nozione si è ricondotta la stabile convivenza tra due persone, anche dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri (cfr. la citata Corte cost., n. 138 del 2010, Cass., 15 marzo 2012, n. 4184).
Nella stessa legislazione nazionale, ancorchè in maniera disorganica, e ferma restando la ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, sono emersi segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto.
Sotto tale profilo, e senza pretesa di completezza, vale bene richiamare la L. 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita ogni residua discriminazione tra figli “legittimi” e “naturali”; la L. 8 febbraio 2006, n. 54, che, introducendo il c.d.affidamento condiviso, ha esteso la relativa disciplina ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati; la L. 19 febbraio 2004, n. 40, che all’art. 5 prevede l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la L. 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri, di cui all’art. 408 c.c., per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonchè, all’art. 5, prevedere, in relazione all’art. 417 c.c., che l’interdizione e l’inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente; la L. 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 342-bis e 342-ter, estendendo al convivente il regime di protezione contro gli abusi familiari; la L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 7, che, sostituendo la L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, comma 4, ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti risulti soddisfatto anche quando costoro abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
Anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si rinvengono significative pronunce in cui la convivenza more uxorio assume il rilievo di formazione sociale dalla quale scaturiscono doveri di natura sociale e morale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, da cui discendono, sotto vari aspetti, conseguenze di natura giuridica.
E’ stato così affermata il diritto del convivente a farsi risarcire in caso di lesioni arrecate da terzi al rapporto nascente da un’unione stabile e duratura (Cass., 21 marzo 2013, n. 7128; Cass., 16 settembre 2008, n. 23725).
In altre pronunce si è attribuita rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini della perdita dell’assegno di mantenimento o di quello di divorzio (Sez. 1, 10 novembre 2006, n. 24056; Sez. 1, 10 agosto 2007, n. 17643; Sez. 1, 11 agosto 2011, n. 17195; Sez. 1, 12 marzo 2012, n. 3923).
Di recente, ancora, muovendo dal rapporto di detenzione qualificata dell’unita abitativa, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, si è affermato che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio (Cass., 21 marzo 2013, n. 7214).
I doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione sociale costituita dalla convivenza more uxorio refluiscono, secondo un orientamento di questa Corte ormai consolidato, sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza (Cass., 15 gennaio 1969, n. 60; Cass., 20 gennaio 1989, n. 285; Cass., 13 marzo 2003, n. 3713; Cass., 15 maggio 2009, n. 11330).
Per la consolidata giurisprudenza di legittimità è però possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza” (Cass. n. 11330/2009; cfr. anche Cass. n. 1277/2014 e Cass. n. 14732/2018, da ultima Cass. 15/2/2019 n. 4659).
Responsabilità per fatto illecito degli internet service provider
Al riguardo, si osserva innanzitutto che per Internet service provider si intendono quei soggetti che, operando nella società dell’informazione, forniscono liberamente servizi internet, in specie servizi di connessione, trasmissione e memorizzazione dati, anche attraverso la messa a disposizioni delle loro apparecchiature per ospitare i dati medesimi.
Il provider è essenzialmente un intermediario che stabilisce un collegamento tra chi intende comunicare un’informazione ed i destinatari della stessa, di talché qualsiasi attività venga posta in essere sulla rete Internet passa sempre attraverso l’intermediazione di un provider ed i dati transitano attraverso i server che lo stesso prestatore mette a disposizione per erogare i suoi servizi tanto di accesso (access provider) che di fornitura di email e di spazi web (hosting).
Al fine di armonizzare la regolamentazione dell’attività degli intermediari della comunicazione sulla rete internet, l’Unione europea ha approntato una dettagliata normativa (Direttiva 31/2000/0E sui servizi della società dell’informazione, in particolare sul commercio elettronico, recepita in Italia con il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70), riguardante la tutela dell’affidabilità delle transazioni, la disciplina dell’attività dei prestatori di servizi in rete, e prevedendo, in presenza di specifici requisiti, esenzioni di responsabilità a favore di alcuni prestatori per gli illeciti commessi dagli utenti tramite i loro servizi.
In considerazione della diversità dei servizi forniti dagli Internet provider, la Direttiva, nella sezione dedicata alla “responsabilità dei prestatori intermediari”, distingue tre tipi di attività di intermediazione:
- prestatori di semplice trasporto (mere conduit – 12): intermediazione che consiste nel servizio di trasmettere, sulla rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione stessa; tale servizio è caratterizzato dal fatto che la memorizzazione delle informazioni trasmesse in rete è assolutamente transitoria e dura lo stretto tempo necessario a consentire la trasmissione richiesta dall’utente;
- prestatori di servizi di memorizzazione temporanea (caching -art. 13): servizio di trasmissione, su una rete di comunicazione, di informazioni fornite da un destinatario del servizio, caratterizzato da una memorizzazione automatica e temporanea delle informazioni al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta;
- prestatori di servizi di memorizzazione di informazione (hosting – art. 14): memorizzazione di informazioni fornite dal destinatario, che, nella ‘piattaforma Facebook, ad esempio, ha lo scopo di consentire la condivisione del materiale memorizzato con un numero indeterminato di altri utenti.
La regola di base prevede che gli Internet service provider non siano responsabili delle informazioni trattate e delle operazioni compiute dagli utenti (destinatari) che fruiscono del servizio, salvo intervengano sul contenuto o sullo svolgimento delle stesse operazioni.
Ed infatti, la normativa europea esclude espressamente l’obbligo di monitoraggio preventivo e generalizzato, come pure un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o un obbligo di monitoraggio preventivo e generalizzato, o anche un “obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze cie indichino la presenza di attività illecite” (art. 15, Dir. 2000/31/CE).
Le ipotesi di esonero di responsabilità variano, invece, per i predetti intermediari in base alle diverse caratteristiche del servizio offerto e, in particolare, in virtù della diversa durata della memorizzazione delle informazioni immesse dall’utente.
Ora, tralasciando in questa sede l’attività di cachíng e la più circoscritta attività di mere conduit, e prendendo in considerazione la sola attività di hosting, occorre far riferimento alla disciplina dettata dall’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 70/2003, che in attuazione’ di quanto previsto dall’art. 14 della direttiva europea, ha escluso’, la responsabilità del prestatore, a condizione che il medesimo: “a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”.
Sul punto è bene precisare che le due ipotesi prese in considerazione dalla disposizione di legge sono tra loro alternative, nel senso che è sufficiente che non ricorra anche una sola di esse affinché il provider non sia esente da responsabilità.
Ed infatti, il testo normativo adottato dal legislatore italiano deve essere interpretato conformemente a quanto statuito dalla Corte di Giustizia con riferimento alla direttiva a cui il d.lgs. n. 70/2003 ha dato attuazione. Ebbene la CGUE ha affermato che, anche in riferimento al semplice prestatore di un servizio dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio medesimo (cd. hosting passivo), va esclusa l’esenzione di responsabilità prevista dall’art. 14 della, Direttiva, 31/2000 quando lo stesso “dopo aver preso conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività di detti destinatari abbia omesso di prontamente rimuovere, tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi”, così sancendo il principio secondo il quale la conoscenza, comunque acquisita (non solo se conosciuta tramite le autorità competenti o a seguito di esplicita diffida del titolare dei diritti) dell’illiceità dei dati memorizzati fa sorgere la responsabilità civile e risarcitoria del prestatore di servizi (sentenza del 23.03.2010, relativa alle Cause riunite da C-236/08 a C-238/08 – Google cs. Louis Vuitton).
Tale principio è stato poi ribadite anche in una successiva sentenza in cui la CGUE ha precisato che, affinché l’hosting provider sia considerato al corrente dei fatti o delle circostanze che rendono manifesta l’illegalità del contenuto immesso sul portale telematico, è sufficiente “che egli sia stato al corrente di fatti o di circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità di cui trattasi” (sentenza del 12.07.2011 nella causa C-324/09).
Il principio di responsabilità del provider collegato all’effettiva conoscenza, ancorché acquisita ex post, della natura illecita dei contenuti caricati sui propri server costituisce il giusto punto di equilibrio tra i vari diritti protetti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: da una parte, quelli di cui godono i titolari di diritti d’autore, dall’altra, la libertà d’impresa dei fornitori di accesso a internet e il diritto degli utenti di ricevere o comunicare informazioni.
Sul carattere illecito della pubblicazione di link di collegamento a portali terzi, in assenza di qualsiasi preventiva autorizzazione del titolare si e più volte espressa anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che “l’atto di collocare un collegamento ipertestuale verso un’opera illegittimamente pubblicata su Internet costituisce una «comunicazione al pubblico» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo i, della direttiva 2001/29″ (sentenza del 26 aprile 2017 relativa al caso C-527/15) e che “la messa in rete di un’opera protetta dal diritto d’autore su un sito Internet diverso da quello sul quale è stata effettuata la comunicazione iniziale con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore deve … essere qualificata come messa a disposizione di un pubblico nuovo di siffatta opera” (sentenza del 7 agosto 2018 relativa al caso C-161/17).
Dunque, la diffusione dei contenuti audiovisivi di cui taluno è titolare, attraverso mezzi telematici, integra un’ipotesi di comunicazione ad un pubblico nuovo perché diverso da quello in origine autorizzato dall’autore dei contenuti.
Questi principi sono stati affermati dal Tribunale di Roma nella sentenza in data 15/2/2019 n. 33124, sezione specializzata per le imprese.
Omicidio stradale: revoca della patente solo in caso di ebbrezza o stupefacenti.
La Corte Costituzionale ha recentemente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 222 del Codice della strada là dove prevede l’automatica revoca della patente di guida in tutti i casi di condanna per omicidio e lesioni stradali.
In particolare, i giudici costituzionali hanno riconosciuto la legittimità della revoca automatica della patente in caso di condanna per reati stradali aggravati dallo stato di ebbrezza o di alterazione psicofisica per l’assunzione di droghe ma nelle altre ipotesi di condanna per omicidio o lesioni stradali hanno escluso l’automatismo e riconosciuto al giudice il potere di valutare, caso per caso, se applicare, in alternativa alla revoca, la meno grave sanzione della sospensione della patente.
La legge n. 41 del 2016 che ha introdotto il delitto di omicidio stradale e quello di lesioni personali stradali gravi o gravissime, inasprendone le sanzioni, ha però superato il vaglio di costituzionalità con riferimento al divieto, per il giudice, di considerare prevalente o equivalente la circostanza attenuante speciale della “responsabilità non esclusiva” dell’imputato (che comporta la diminuzione della pena fino alla metà) rispetto alle concorrenti aggravanti speciali previste per questi reati, tra cui la guida in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
Nullità della multa per eccesso di velocità in mancanza nel verbale di contestazione degli estremi del decreto prefettizio di autorizzazione della contestazione differita
In tema di sanzioni amministrative vige la regola generale della contestazione immediata delle violazioni al codice della strada.
La contestazione è l’atto formale con il quale l’Autorità accertatrice comunica al trasgressore, nell’immediatezza dell’infrazione, la norma del codice violata.
Si tratta di un adempimento obbligatorio posto a tutela del diritto di difesa del cittadino, affinché questo venga messo nelle condizioni di potersi difendere tempestivamente.
Quando la violazione non può essere contestata immediatamente, ai sensi dell’articolo 201 codice della strada, gli estremi precisi e dettagliati della violazione, nonché i motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata, devono essere indicati nel verbale di accertamento.
Un’ipotesi particolare nella quale è ammessa la contestazione differita dell’infrazione sussiste quando vi sia un ordine espresso del Prefetto che, con apposito decreto, autorizza la contestazione differita dell’eccesso di velocità rilevato tramite sistemi di controllo elettronico, quale ad esempio l’autovelox o analoghi sistemi.
In particolare, il prefetto può, con decreto, individuare le strade o tratti di esse ove autorizzare la rilevazione della velocità con mezzi elettronici, senza obbligo di immediata contestazione, tenuto conto del tasso di incidentalità, delle condizioni strutturali e piano-altimetriche, del traffico o di altre cause per le quali non è possibile il fermo di un veicolo senza recare pregiudizio alla sicurezza della circolazione, alla fluidità del traffico e all’incolumità degli agenti operanti e degli utenti della strada.
Tale provvedimento del prefetto si caratterizza per essere connotato da discrezionalità vincolata, quindi sindacabile dal giudice ordinario, in quanto il prefetto se da un lato gode di un’ampia discrezionalità nello stabilire su quali strade la contestazione immediata della contravvenzione rischia di pregiudicare la sicurezza stradale, nonché la fluidità del traffico, dall’altro incontra un importante limite, ossia il provvedimento può interessare le strade urbane di scorrimento e quelle extraurbane secondarie, non potendo invece riguardare le strade urbane, per le quali vige il principio della contestazione immediata obbligatoria o le autostrade e le strade extraurbane principali, ove, non essendo possibile la contestazione immediata per ragioni di sicurezza, è ammessa l’installazione dei mezzi elettronici di controllo della velocità senza che sia necessaria la presenza degli agenti operanti né tantomeno il decreto prefettizio.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che la mancata indicazione degli estremi del decreto prefettizio nella contestazione integra, un vizio di motivazione del provvedimento sanzionatorio, che pregiudica il diritto di difesa e che non è rimediabile nella fase eventuale di opposizione.
Inoltre, il decreto prefettizio deve contenere l’individuazione dettagliata delle strade ove possibile installare dispositivo, la tratta chilometrica dove lo stesso deve essere posizionato, il senso di marcia ove la telecamera deve essere indirizzata e le motivazioni che hanno indotto il Prefetto a derogare la regola generale della contestazione immediata.
Ciò al fine di permettere a chiunque di verificare la legittimità del provvedimento, ovvero che lo stesso sia stato adottato al fine di garantire e tutelare la sicurezza della circolazione stradale e non, invece, per altri motivi estranei a quelli imposti dalla legge.
Responsabilità dei genitori per il fatto illecito del figlio minore
Come è stato ribadito dalla Suprema Corte in più occasioni, “la responsabilità dei genitori per i fatti illeciti commessi dal minore con loro convivente, prevista dall’art. 2048 cod. civ., è correlata ai doveri inderogabili posti a loro carico all’art. 147 cod. civ. ed alla conseguente necessità di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti ed a realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito. Per sottrarsi a tale responsabilità, essi devono pertanto dimostrare di aver impartito al figlio un’educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini ed alla sua personalità, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la prova di circostanze (quali l’età ormai raggiunta dal minore e le esperienze lavorative da lui eventualmente avute) idonee ad escludere l’obbligo di vigilare sul minore, dal momento che tale obbligo può coesistere con quello educativo, ma può anche non sussistere, e comunque diviene rilevante soltanto una volta che sia stata ritenuta, sulla base del fatto illecito determinatosi, la sussistenza della “culpa in educando”. (così Cass. sez. III sent. n. 9556 de 22.4.2009).
In particolare i genitori devono offrire la prova di aver adempiuto ai doveri di educazione e formazione della personalità del minore, in termini tali da consentirne l’equilibrato sviluppo psicoemotivo, la capacità di dominare gli istinti, il rispetto degli altri e tutto ciò in cui si estrinseca la maturità personale (Cass. sez. III sent. n. 18804 del 28.8.2009 la quale ha anche precisato che: “L’educazione è fatta non solo di parole, ma anche e soprattutto di comportamenti e di presenza accanto ai figli, a fronte di circostanze che essi possono non essere in grado di capire o di affrontare equilibratamente”).
In altre parole, dalla responsabilità ex art. 2048 c.c. i genitori possono liberarsi solo provando di non aver potuto impedire il fatto e più in particolare oltre che “di aver impartito al minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche di aver esercitato sullo stesso una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o diversa opera educativa ed infine di avere anche adottato, in via preventiva, le misure idonee ad evitarlo” (Cass. sez. III sent. n. 15243 del 29.10.2002).
Né “la precoce emancipazione dei minori frutto del costume sociale non esclude né attenua la responsabilità che l’art. 2048 cod. civ. pone a carico dei genitori, i quali, proprio in ragione di tale precoce emancipazione, hanno l’onere di impartire ai figli l’educazione necessaria per non recare danni a terzi nella loro vita di relazione, dovendo rispondere delle carenze educative a cui l’illecito commesso dal figlio sia riconducibile”. (Cass. sez. III sent.n. 3964 del 19.2.2014).
Non solo, in talune fattispecie è possibile ritenere in re ipsa la culpa in educando, qualora il fatto illecito posto in essere dal figlio minore, e le modalità con le quali è stato commesso, siano di tale gravità da rendere evidente la sua incapacità di percepire il disvalore della propria condotta, e dunque in tali casi la prova sulla correttezza dell’educazione impartita deve essere ancora più rigorosa (Cass. sez. III sent. n. 26200 del 6.12.2011).
Ed infine, deve rilevarsi che il dovere educativo e di vigilanza di entrambi i genitori sui figli minori è, sempre sussistente anche nell’ipotesi di genitori non più coniugati o conviventi e che la responsabilità risarcitoria degli stessi non viene meno se il minore, capace di intendere e volere, commette un fatto illecito mentre è affidato a persona idonea a vigilarlo e controllarlo, persistendo la presunzione di “culpa in educando”, di cui all’art. 2048 c.c. (Cass. sez. III sent. n. 2606 del 25.3.1997, Cass. sez. III sent. n. 12501 del 2.9.2000).
Le operazioni bancarie si presumono costituire reddito imponibile per qualunque categoria di contribuenti
In tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2.
Tuttavia, all’esito della sentenza della Corte Cost. n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti, (Cass. 16/11/2018, n. 29572, da ultima Cass.30/1/2019 n. 2651).
Il debitore rimane nell’immobile pignorato fino al decreto di trasferimento della proprietà
La l. 11 febbraio 2019, n. 12, convertendo in legge il d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, ha sostituito completamente l’art. 560 c.p.c., relativo al “Modo della custodia» degli immobili pignorati”.
Nelle espropriazioni immobiliari iniziate dal 13 febbraio 2019, pertanto, il debitore esecutato e i suoi familiari conserveranno l’immobile adibito a propria abitazione fino a che non verrà pronunciato il decreto di trasferimento della proprietà.
Si ricorda che il giudice ordina, sentiti il custode e il debitore, la liberazione dell’immobile pignorato qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, quando l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare, quando il debitore viola gli altri obblighi che la legge pone a suo carico, o quando l’immobile non è abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare.
Il testo del presente articolo, in vigore prima della conversione in legge del citato D.L. n. 135/2018, nella parte relativa alla liberazione dell’immobile pignorato, era il seguente: “Il giudice dell’esecuzione dispone, con provvedimento impugnabile per opposizione ai sensi dell’articolo 617, la liberazione dell’immobile pignorato senza oneri per l’aggiudicatario o l’assegnatario o l’acquirente, quando non ritiene di autorizzare il debitore a continuare ad abitare lo stesso, o parte dello stesso, ovvero quando revoca l’autorizzazione, se concessa in precedenza, ovvero quando provvede all’aggiudicazione o all’assegnazione dell’immobile”.
Si sottolinea che nella prassi del Tribunale di Roma veniva ordinata la liberazione dell’immobile pignorato all’atto dell’emissione dell’ordinanza di vendita.
Di rilievo anche la modifica dell’art. 569 c.p.c., con l’obbligo per il creditore pignorante e per quelli intervenuti, non oltre trenta giorni prima dell’udienza di autorizzazione alla vendita, di depositare un atto, sottoscritto personalmente dal creditore e previamente notificato al debitore esecutato, nel quale è indicato l’ammontare del residuo credito per cui si procede, comprensivo degli interessi maturati, del criterio di calcolo di quelli in corso di maturazione e delle spese sostenute fino all’udienza.
In difetto, agli effetti della liquidazione della somma di cui al primo comma dell’articolo 495, il credito resta definitivamente fissato nell’importo indicato nell’atto di precetto o di intervento, maggiorato dei soli interessi al tasso legale e delle spese successive.
Infine, è aumentata a 48 mesi la possibilità per il debitore di pagare ratealmente il proprio debito ed è ridotta ad un sesto la somma da versare a titolo di deposito nella procedura di conversione.
La presunzione di proprietà condominiale
Secondo la conforme giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr., tra le tante, Cass. n. 3862/1998; Cass. n. 15372/2000, Cass. n. 20593/2018 e da ultima Cass. 3310/2019), in tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova, senza che, peraltro, a tal fine sia sufficiente l’allegazione del suo titolo di acquisto ove lo stesso non contenga in modo chiaro ed inequivocabile elementi idonei ad escludere la condominialità del bene.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 1117 codice civile, rubricato parti comuni dell’edificio “sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo:
1) tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate;
2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche”.
Tali parti del condominio, pertanto, si presumono di proprietà condominiale, salvo prova contraria da fornirsi con il rigore chiesto in materia di prova della proprietà.
Limiti al potere sanzionatorio dell’ausiliario del traffico
Secondo la Corte di Cassazione, Sentenza in data 06-02-2019, n. 3494, in tema di accertamento delle violazioni delle norme del codice della strada, i dipendenti di aziende esercenti il trasporto pubblico di persone, aventi funzioni ispettive, ai quali, ai sensi della L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133, siano state conferite le funzioni di cui al comma 132 del citato articolo, possono accertare le violazioni in materia di circolazione e sosta limitatamente alle corsie riservate al trasporto pubblico, con esclusione, quindi, dell’esercizio di tali funzioni relativamente ad ogni altra area del territorio cittadino”.
Pertanto, tali poteri sono limitati alle infrazioni verificatesi sulle corsie di marcia o sulle aree di sosta riservate ai mezzi pubblici o, comunque, alle infrazioni che in concreto ostacolino il regolare esercizio del servizio di trasporto pubblico.
La sospensione della riscossione e l’annullamento delle sanzioni in caso di illecito penalmente rilevante del professionista incaricato di versare le imposte
La L. n. 423 del 1995, art. 1, prevede la sospensione della riscossione per l’ipotesi che la violazione fiscale, formalmente riferibile al contribuente, consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, del professionista cui il contribuente aveva dato incarico di pagamento delle tasse, con una dettagliata disciplina che prevede l’annullamento delle sanzioni per l’ipotesi in cui con pronuncia penale definitiva sia riconosciuta la responsabilità del professionista.
Fattispecie differente è invece quella del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 3, che dispone invece più semplicemente che “Il contribuente, il sostituto e il responsabile d’imposta non sono punibili quando dimostrano che il pagamento del tributo non è stato eseguito per fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi“.
Ai sensi della L. 423, art. unico, si individua pertanto una fattispecie cautelare, che prevede la sospensione della riscossione delle sanzioni per l’ipotesi in cui il professionista incaricato dal contribuente del versamento delle imposte si sia appropriato delle somme e non abbia provveduto al versamento.
Prevede poi l’annullamento delle sanzioni (con commutazione a carico del professionista) qualora il procedimento penale nei confronti del professionista si sia concluso con l’accertamento definitivo della sua responsabilità (o con provvedimenti analoghi, mentre, per l’ipotesi di definizione del processo penale ai sensi degli artt. 425 o 529 c.p.p., la sospensione non perde efficacia ma è necessario che il contribuente dimostri di aver promosso il giudizio civile entro tre mesi dal provvedimento penale).
E’ allora evidente che già per la fase cautelare della sospensione è comunque necessario che il contribuente dimostri, oltre che la denuncia presentata nei confronti del professionista infedele, anche che abbia versato a questi la provvista per il pagamento dei tributi.
Ai fini dell’annullamento delle sanzioni è invece necessaria la condanna definitiva (o i provvedimenti ritenuti equipollenti).
La giurisprudenza di legittimità, consapevole del pericolo di ingiustificata disparità di tutele tra la normativa ora esaminata e il D.Lgs. n. 472 cit., art. 6, ha affermato che la L. n. 423 cit., art. 1, il quale, in tema di violazioni delle leggi tributarie, prevede la sospensione della riscossione delle soprattasse e delle pene pecuniarie (per omesso, insufficiente o ritardato versamento d’imposta) qualora la violazione consegua alla condotta illecita, penalmente rilevante, di professionisti ivi indicati, va interpretato – al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento ed in coerenza con quanto previsto dal sopravvenuto D.Lgs. n. 472, art. 6 – nel senso che la non debenza delle anzidette soprattasse e pene pecuniarie non è subordinata al rispetto degli adempimenti procedurali (istanza di sospensione da parte del contribuente, denuncia del reato all’autorità giudiziaria, ecc.) previsti dalla medesima menzionata L. n. 423 del 1995, e che le condizioni obiettive richiamate dalla legge stessa possono essere fatte valere anche in sede di impugnazione dell’atto impositivo, o chiedendo la restituzione di quanto già versato, e fornendo la prova della sussistenza delle anzidette circostanze direttamente in sede di giudizio tributario (Cass., sent. n. 17578/2002; 26850/2007; 14026/2009).
L’unico limite che pone la giurisprudenza di legittimità è che sia chiesto l’annullamento delle sanzioni anche nella fase cautelare di sospensione della riscossione, (se attivata) non potendosi chiedere l’annullamento delle sanzioni, a seguito del ricevimento di una cartella esattoriale, qualora fosse stata chiesta solo la sospensione della riscossione nella fase cautelare (Corte di Cassazione 23/1/2019 n. 1759).
La morte del suocero legittima l’aumento dell’assegno di mantenimento a carico del marito
L’aggravarsi delle condizioni di salute del padre del coniuge a cui è stato attribuito il diritto all’assegno di mantenimento, e il suo decesso, nel caso in cui questo con le sue sostanze contribuisca al mantenimento della figlia, costituiscono una circostanza sopravvenuta e rilevante ai fini della modifica delle condizioni economiche della separazione, nel caso in cui ciò determini un rilevante mutamento delle condizioni economiche del coniuge beneficiario.
Ciò perché la morte del padre fa venir meno il consistente aiuto economico in favore della figlia per il suo mantenimento.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza in data 04/02/2019, n. 3206.
Nel caso deciso la Suprema Corte ha rilevato, quanto alla modifica delle condizioni economiche, che la morte del padre della moglie, aveva determinato un rilevante mutamento delle sue condizioni economiche facendo venir meno il consistente aiuto economico in favore della figlia e della nipote, aiuto che aveva consentito a questa, sino ad allora, di integrare il modesto importo dell’assegno previsto dalla separazione consensuale.
Ha rilevato altresì la Corte che, sebbene la moglie fosse in possesso di titoli professionali (laurea triennale e abilitazione all’attività di giornalista) che, in astratto, avrebbero potuto garantirle un reddito sufficiente alle sue esigenze di vita, in concreto la sua capacità reddituale era pressochè inesistente non avendo maturato, all’età di 50 anni, alcuna esperienza lavorativa.
Per tali motivi ha accolto la richiesta della moglie di revisione delle condizioni economiche della separazione a seguito della morte del padre della stessa.
Il Prefetto deve valutare il caso concreto nella revoca della patente per reati legati agli stupefacenti
L’articolo 120 del codice della strada stabilisce, tra l’altro che “non possono conseguire la patente di guida (…) le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del Testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 ( Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza ) fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi (…)” e che ” (…) se le condizioni soggettive indicate al primo periodo del comma 1 del presente articolo intervengono in data successiva al rilascio, il prefetto provvede alla revoca della patente di guida (…)”.
In siffatto quadro fattuale-normativo è intervenuta la Corte Costituzionale con sentenza 22/2018 del 22.01.2018, depositata li 09.02.2018, dichiarando la illegittimità costituzionale, per violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., dell’art. 120, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, come sostituito dall’art. 3, comma 52, lett. a), della legge 15 luglio 2009 n. 94 ( Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi di condanna per i reati di cui agli arti 73 e 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, che intervenga in data successiva a quella di rilascio della patente di guida – dispone che il prefetto “provvede ” – invece che “può provvedere” – alla revoca della patente.
E’ stata, pertanto, ritenuta fondata e meritevole di accoglimento la questione sollevata dal Tribunale di Genova con ordinanza n. 210/2016 che aveva denunciato la disposizione di cui all’art. 120 comma 2, C.d.S. ai sensi del quale, nel caso i requisiti morali per ottenere l’abilitazione alla guida venissero meno per via di una condanna attinente alla detenzione ed al commercio di stupefacenti, il prefetto doveva provvedere alla revoca della patente di guida senza alcun potere discrezionale di valutazione della fattispecie concreta di reato e della personalità del soggetto condannato.
Secondo la Corte Costituzionale la violazione dei principi di cui all’art. 3 Cost. si riscontra nell’art. 120 comma 2, C.d.S. laddove la norma ricollega in via automatica il medesimo effetto – la revoca del titolo di guida – alla sopravvenienza di una condanna penale per i reati di cui agli artt. 73 e 74 T.U. sugli stupefacenti, le cui disposizioni, tuttavia, comprendono una varietà di fattispecie, potendo riguardare reati di diversa natura ed entità, anche alla luce delle modifiche introdotte con D.L. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito in L. 10/2014, che hanno reso fattispecie autonoma di reato l’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/1990.
I giudici della Consulta si premurano di escludere in radice la qualifica di “sanzione penale” del provvedimento prefettizio affermando che “la revoca della patente, nei casi previsti dall’articolo 120 in esame, non ha natura sanzionatoria, né costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, ma rappresenta la constatazione dell’insussistenza (sopravvenuta) dei “requisiti morali” prescritti per il conseguimento di quel titolo di abilitazione”.
Il primo profilo di irragionevolezza della norma censurata risiede – ad avviso della Corte Costituzionale – nel fatto che l’applicazione automatica della revoca della patente di guida prescinde da qualsiasi valutazione delle circostanze del caso concreto e, soprattutto, dall’eventuale distanza temporale del provvedimento del prefetto rispetto ai fatti ai quali si riferisce la sentenza di condanna per i reati in tema di stupefacenti: “la disposizione denunciata – sul presupposto di una indifferenziata valutazione di sopravvenienza di una condizione ostativa al mantenimento del titolo di abilitazione alla guida – ricollega, infatti, in via automatica, il medesimo effetto, la revoca di quel titolo, ad una varietà di fattispecie, non sussumibili in termini di omogeneità , atteso che la condanna, cui la norma fa riferimento, può riguardare reati di diversa, se non addirittura di lieve entità. Reati che, per di più, possono essere assai risalenti nel tempo, rispetto alla data di definizione del giudizio. Il che dovrebbe escluderne l’attitudine a fondare, nei confronti del condannato, dopo un tale intervallo temporale, un giudizio di assenza dei requisiti soggettivi per il mantenimento del titolo di abilitazione alla guida”.
Ulteriore profilo di contrasto con l’art. 3 Cost., come già evidenziato dal rimettente Tribunale genovese, deriva, per il Giudice delle leggi, dal raffronto con l’art. 85 del T.U. sugli stupefacenti, in forza del quale il giudice penale che pronuncia sentenza di condanna per i reati in questione “può disporre” la parallela misura del ritiro della patente di guida.
L’accoglimento di tale censura, peraltro, non si basa sul fatto che, a seguito dell’intervenuta condanna, il prefetto debba disporre la revoca anche ove il giudice penale decida di non irrogare la sanzione penale accessoria del ritiro della patente ( attesa l’accertata natura non sanzionatoria del provvedimento prefettizio), bensì sulla constatazione che, a fronte del medesimo presupposto ( condanna per i reati in tema di stupefacenti, il fatto-reato è lo stesso) e delle affinità, sul piano pratico, delle due diverse misure ( incidendo entrambe negativamente sulla titolarità della patente), “mentre il giudice penale ha la “facoltà” di disporre, ove lo ritenga opportuno, il ritiro della patente, il prefetto ha invece il “dovere” di disporne la revoca”.
In conclusione, in caso di condanna per reati legati agli stupefacenti, il Prefetto non può provvedere in via automatica alla revoca della patente, ma deve valutare il caso concreto e motivare adeguatamente il provvedimento.
Mancata produzione di documentazione richiesta dall’Agenzia delle Entrate
L’art. 32 comma 4 del D.P.R. 600/1973 (disposizioni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) prevede che “le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta“.
Il successivo comma 5 prevede poi che “le cause di inutilizzabilità previste dal terzo comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati i documenti i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile.”.
Ai fini Iva il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, u.c., rinvia all’art. 32 cit. per l’inottemperanza agli inviti alla esibizione della medesima documentazione (comma 2, punti 3 e 4 della norma).
Invece il D.P.R. n. 633 cit., art. 52, comma 5, prevede che “i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi alla ispezione.”. Quest’ultima norma disciplina la diversa ipotesi del doloso occultamento, che preclude, a differenza di quella contemplata dall’art. 32 cit., la definitiva inutilizzabilità della documentazione richiesta e non fornita, laddove la fattispecie dell’art. 32 sanziona con l’inutilizzabilità degli atti la mancata esibizione e produzione, ma al contempo prevede che il contribuente che alleghi l’inimputabilità a sè della intempestiva produzione, possa utilizzare i documenti tardivamente prodotti in sede contenziosa.
E’ allora evidente la diversa finalità e ad un tempo la distinzione tra le due fattispecie.
Quella dell’art. 32 cit. è disciplina volta a favorire il dialogo tra le parti, al fine di chiarire la posizione fiscale del contribuente, che evidentemente l’Agenzia reputa contraddittoria o comunque opaca, onde evitare il contenzioso (Cass., sent. n. 453/2013; 28049/2009).
Si tratta cioè della instaurazione di un sub procedimento fondato sui canoni di lealtà, correttezza e collaborazione, implicati quando siano in gioco obblighi di solidarietà “come quello in materia tributaria” (C. Cost., sent. n. 351/2000).
Ciò giustifica la sanzione della inutilizzabilità della documentazione richiesta e non esibita dal contribuente, che si sottrae al dialogo con l’amministrazione, così impedendo a questa di procedere ad un accertamento analitico, di certo più aderente alla realtà, ma per ciò stesso implicante una collaborazione fattiva e temporalmente puntuale del contribuente medesimo.
A tali effetti si spiega anche come costituisca presupposto imprescindibile, al fine della attribuzione di rilevanza giuridica alla condotta omissiva del contribuente invitato con il questionario a produrre documentazione, l’avvertimento della inutilizzabilità della documentazione tardivamente prodotta in sede amministrativa e contenziosa (cfr. Cass., sent. n. 27069/2016).
Ad un tempo spiega il perchè la documentazione allegata in ritardo possa parimenti essere recuperata al vaglio della Amministrazione ai fini dell’accertamento, e più ancora del giudice investito della controversia, qualora l’intempestività della allegazione non sia imputabile al contribuente, o anche qualora sia temporalmente irrilevante (cfr. Cass., sent. 20461/2011).
Criteri per la determinazione del danno alla persona
Sul piano del diritto positivo, l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.).
Nel procedere all’accertamento e alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito deve dunque tenere conto, da una parte, dell’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 235 del 2014) e, dall’altra, del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 e 139 codice delle assicurazioni come modificati dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 17, la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituisce la precedente, intitolata danno biologico, e il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale da quello morale.
In particolare nella valutazione del danno alla persona da lesione della salute (art. 32 Cost.), ma non diversamente da quanto avviene in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore o interesse costituzionalmente protetto, il giudice dovrà necessariamente valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sè stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna).
La misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può inoltre essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali e affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit” (ossia quelle che qualunque persona con la medesima invalidità ovvero lesione non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.
In questo senso, va ribadito che ai fini della c.d. “personalizzazione” del danno forfettariamente individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari (e che devono ritenersi destinati alla riparazione delle conseguenze “ordinarie” inerenti ai pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente patirebbe), spetta al danneggiato far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto nella domanda e dimostrando concretamente nel giudizio, specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze “ordinarie” già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari.
In tale quadro ricostruttivo, costituisce quindi duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (art. 32 Cost.), mentre una differente ed autonoma valutazione andrà compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 del c.d.a., alla lettera e).
La liquidazione finalisticamente unitaria di tale danno (non diversamente da quella prevista per il pregiudizio patrimoniale, nella sua duplice e distinta accezione di danno emergente e di lucro cessante) avrà pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subìto tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore, quanto sotto quello dell’alterazione o modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche.
Criteri per la determinazione dell’assegno divorzile
A partire dalla sentenza n. 11490 del 1990 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la giurisprudenza ha affermato il carattere esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile, individuandone il presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge istante a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, e prevedendo che la relativa liquidazione dovesse essere effettuata in base alla valutazione ponderata dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio.
Tale orientamento, rimasto fermo per un trentennio, è stato modificato con la sentenza n. 11504 del 2017, con cui la Corte ha affermato che il parametro dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante deve essere valutato al lume del principio dell’autoresponsabilità economica di ciascun coniuge ormai “persona singola” e che, all’esito dell’accertamento della condizione di non autosufficienza economica, vanno esaminati in funzione determinativa del quantum i criteri indicati dalla norma.
Con la recente sentenza n. 18287 del 2018 sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite della Corte, che, nell’ambito di una riconsiderazione dell’intera materia, hanno ritenuto che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive del coniuge richiedente sia da riconnettere alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli durante lo svolgimento della vita matrimoniale e da ricondurre a determinazioni comuni, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età di detta parte, affermando i seguenti principi di diritto:
a) all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate;
b) la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi;
c) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
Danno da perdita del coniuge separato
La Corte di Cassazione, con la sentenza in data 11 gennaio 2019, n.1182, ha affermato che il risarcimento del danno non patrimoniale può essere accordato al coniuge, ancorché separato legalmente, in considerazione della pregressa esistenza di un rapporto di coniugio, della sussistenza di figli, della definitività dello “status”connesso alla separazione legale e della possibile ripresa della comunione familiare, a condizione però si dimostri che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso tra i coniugi.
Costituisce, infatti, ius receptum, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui il danno morale è da ravvisarsi nell’ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato e nel dolore generato dall’illecito.
Il risarcimento del danno morale può essere dunque accordato anche al coniuge separato, per la morte dell’altro coniuge, in quanto lo stato di separazione personale non è incompatibile, di per sè, con tale ristoro, dovendo aversi riguardo, oltre che alla sua tendenziale temporaneità e alla possibilità di una riconciliazione, anche alle ragioni che hanno determinato la separazione e ad ogni altra utile circostanza idonea a chiarire se e in quale misura l’evento luttuoso, dovuto all’altrui fatto illecito, abbia procurato al coniuge superstite quelle sofferenze morali che di solito si accompagnano alla morte di una persona cara (Cass. civ., Sez. 3, n. 10393 del 17-7-2002, Rv. 555866-01).
Il risarcimento del danno non patrimoniale può, dunque, essere accordato al coniuge, ancorchè separato legalmente, in considerazione della pregressa esistenza di un rapporto di coniugio, della sussistenza di figli, della non definitività dello status connesso alla separazione legale e della possibile ripresa della comunione familiare (Cass. civ., n. 25415 del 12-11-2013, Rv. 629166-01), a condizione però che si dimostri che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso tra i coniugi (Cass.civ., Sez. 3, n. 25415 del 12-11-2013, Rv. 625065-01).
Cenni in materia di responsabilità medica
La consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito, a partire dagli anni novanta, ha gradualmente fatto confluire tutte le fattispecie di responsabilità sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale, con la conseguenza dell’applicazione dei correlativi regimi della ripartizione dell’onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione, tipici delle obbligazioni da contratto d’opera professionale, quanto alla struttura sanitaria, ravvisando la fonte di tale tipo di responsabilità nella conclusione, al momento della “accettazione” del paziente nella struttura, di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità avente ad oggetto l’obbligo della struttura di adempiere sia prestazioni principali di carattere sanitario che prestazioni secondarie ed accessorie quali quelle assistenziali e lato sensu alberghiere.
Si tratta, in particolare: a) di un contratto atipico, con effetti protettivi nei confronti del terzo, che fa sorgere a carico della casa di cura privata o dell’ente ospedaliero pubblico, accanto ad obblighi lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, di quello paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni; b) di un contratto a prestazioni corrispettive in quanto fa sorgere anche l’obbligazione di versare il corrispettivo per la prestazione resa dalla struttura sanitaria (pubblica o privata), restando irrilevante che questa obbligazione sia estinta dal paziente, dal suo assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente.
La responsabilità dell’ente ha, così, assunto carattere contrattuale in relazione sia a fatti di inadempimento propri della struttura che alle condotte dei medici dipendenti, in applicazione dell’art. 1228 c.c. sulla responsabilità del debitore per fatti dolosi o colposi degli ausiliari.
Tale inquadramento giuridico non viene meno neanche a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 189 del 2012, c.d. legge Balduzzi, e della recentissima legge di riforma della responsabilità sanitaria, L. n. 24 del 8 marzo 2017 (quest’ultima afferma che i sanitari rispondono del loro operato in base all’art. 2043 c.c. a meno che non abbiano agito nell’adempimento di una obbligazione direttamente assunta con il paziente).
Ciò posto, va ribadito che trattasi di responsabilità professionale per la quale la giurisprudenza è ormai pacifica nel ritenere che, ai fini del riparto dell’onere probatorio, il paziente danneggiato deve limitarsi a provare il contratto o contatto sociale e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
Dopo aver riscontrato l’esistenza di un nesso eziologico deve essere affrontato il tema della esistenza della colpa.
E’ necessario preliminarmente, dunque, secondo i principi generali di cui all’art. 2697 cod. civ., che il paziente dimostri il nesso di causalità tra l’evento lesivo della sua salute e la condotta del medico, dovendosi dimostrare che il peggioramento delle condizioni di salute è connesso causalmente al comportamento del medico
Invero, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità civile, per l’accertamento del nesso causale tra condotta illecita ed evento di danno non è necessaria la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra la prima ed il secondo, ma è sufficiente la sussistenza di un rapporto di mera probabilità scientifica.
Ne consegue che il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne risulti conseguenza “altamente probabile e verosimile”, secondo la regola del “più probabile che non” o della “preponderanza dell’evidenza”, da ritenersi criterio di giudizio non sovrapponibile a quello penalistico dell'”oltre ogni ragionevole dubbio” (cfr. sul punto Cass. 26 giugno 2007, n. 14759 e Cass. 11 maggio 2009, n. 10745).
Ne deriva che, con riguardo alla responsabilità professionale del medico, essendo quest’ultimo tenuto a espletare l’attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l’omissione di tale attività diligente e l’imperizia, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso (Cass. civ. n. 16123/2010).
Ciò posto, provata la sussistenza del nesso causale, in base alla presunzione relativa alla imputabilità per colpa (negligenza o imperizia professionale) di tale omissione al convenuto- professionista sanitario, sarà quest’ultimo, a dover provare, al fine di vincere tale presunzione semplice, la correttezza delle modalità diagnostiche e terapeutiche seguite, ossia della non imputabilità a colpa dell’inadempimento (omissione diagnostica o terapeutica) o, ancora, della insussistenza della omissione addebitata (effettuazione di ogni azione, manovra o prescrizione, in concreto e data la situazione del paziente e le emergenze cliniche disponibili e accertabili con la ordinaria diligenza del professionista appartenente alla categoria).
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